Scrivere di vino è stato il mio unico mestiere per 11 anni. Pensavo di averlo acchiappato, il vino, di poterlo amministrare e giudicare secondo una tecnica imparata in gioventù e ripetuta allo sfinimento. A un certo punto è sparito, non lo trovavo più, non lo capivo più. Mi ostinavo ad assaggiare e assaggiare ma, niente, proprio non ne voleva sapere di sortire fuori. Poi ho smesso di assaggiare e ho cominciato a bere come dovrebbe fare ogni persona che si occupa di questo liquido. Il vino, finalmente, è apparso di nuovo. Era cambiato, per questo non lo trovavo più. La sua espressione era più profonda e articolata, sfuggente all’analisi superficiale che reiteravo ciecamente. Certo il solo sentimento di empatia, scaturito dal contatto tattile, non era sufficiente. Nella sua evoluzione il vino non era più prevedibile; il suo sapore cangiante, i profumi inediti ma più di tutto la sua struttura sembrava sempre più aerea, leggiadra, scevra di quelle concentrazioni e dolcezze che tanto avevo apprezzato prima di cambiare approccio. Allora sono tornato a studiare; ho frequentato Antropologia culturale presso l’Università di Pisa e terminato il master Futuro Vegetale, diretto dallo scienziato Stefano Mancuso,  presso l’Università di Firenze. Da questi approfondimenti ho imparato a pensare le piante come esseri viventi, ho appreso che la cultura agricola si fonda su profonde e antiche relazioni  capaci di intrecciare tecnica agricola, saperi tradizionali e storia contadina. Da ciò la viticoltura assume un aspetto ancestrale, non replicabile, che separa il lavoro industriale da quello artigianale con ripercussioni decisive sul gusto. Ecco dove diavolo si era nascosto il vino che cercavo. Era tornato nel suo luogo di origine: la terra. Come tutti gli esseri vegetali la vite è viva e agisce nell’ambiente in connessione con il resto delle specie viventi in un paesaggio determinato; il vino è vivo ed è il risultato di gesti umani operanti in questo ambiente di cui la cantina è un’importante appendice. Per capire il vino vivo occorre quindi occuparsi di paesaggi, uomini, cultura ecologica e poi bere con coscienza, piacere e apertura mentale. Da quando ho maturato tali consapevolezze ho cessato di essere felice con il mio lavoro di degustatore. La prospettiva critica si era talmente ampliata che lavorare a una guida di settore, con le sue ciclicità e la sua soverchiante attività promozionale, era diventato riduttivo rispetto alle incredibili aperture che il liquido vivente mi stava mostrando. Il vino si è sbarazzato di gerarchie che una malintesa critica enologica gli ha voluto affibbiare fino alla sua elezione a merce. Non esistono gerarchie, il vino è uno. Sono gli uomini con i loro gesti e le loro fortune a individuare i migliori luoghi di coltura e provare a costituirsi interpreti di essi. Ecco perché ho deciso di concludere la mia esperienza di semplice degustatore perdendo il privilegio della professione ma acquisendo valori fondamentali come libertà e indipendenza. Il vino deve essere raccontato in relazione con gli uomini, con l’alimentazione e l’ambiente secondo coscienza ecologica, elemento quest’ultimo che torna oggi potentemente alla ribalta. Ecco perché ho creato Ripeness is all, maturità è tutto, vino, cibo e coscienza ecologica. Benvenuti e Viva il vino vivo!

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Da Pubblicato il: 8 Gennaio 2021Categorie: Articolo di Testa, Blog1 Comment

One Comment

  1. Gioia 2 Febbraio 2021 at 22:18 - Reply

    Per tornare a nutrirsi di parole, preziose, ne abbiamo un gran bisogno. Grazie Fabio!

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