Corrado Dottori è vignaiolo e scrittore. Lavora nelle Marche, a Cupramontana, uno dei luoghi d’elezione del vitigno verdicchio. Come vignaioli alla fine dell’estate è il suo ultimo libro, pubblicato da DeriveApprodi.
Domanda. Penso al tuo ultimo libro pubblicato nel 2019 da DeriveApprodi, Come vignaioli alla fine dell’estate; in particolare sul ruolo che la viticoltura può assumere nell’ecologia. La tua è stata la prima voce viticola a cercare di connettere il mondo del vino artigianale con problemi globali di sostenibilità. La viticoltura, anche quella industriale, ha compiuto passi da gigante negli ultimi anni proprio riguardo il minimo impatto ambientale. Può essere decisiva nel cambio di paradigma? Cosa altro deve cambiare a tuo giudizio, in termini di politica ed alleanze, per un vero e proprio mutamento del pensiero ecologico?
Corrado Dottori. Alcune tematiche affrontate dal libro sono oggi molto attuali. Filosofi come Emanuele Coccia e scienziati del calibro di Stefano Mancuso hanno finalmente diffuso l’interesse per la vita vegetale. La loro popolarità è il sintomo di un cambio di atteggiamento nei confronti delle piante. La viticoltura però obbliga a un ragionamento diverso. Non si può certo parlare di cambio di paradigma. Si tratta, piuttosto, di un passaggio preventivato già una decina di anni fa verso un’idea generica di “verde”. Un movimento che rasenta il greenwashing* suggerito da vincoli esterni quali le direttive europee in materia e una generale sensibilità diffusa dei consumatori verso il sostenibile. La spinta al biologico secondo una logica produzionista, per usare un’espressione della filosofa Donna Haraway, che consegna merci biologiche al posto di quelle convenzionali non sposta di molto la questione profonda dell’ecologia. Certo teniamo conto del miglioramento dal punto di vista dell’impatto ambientale di grandi aziende, e di questo aspetto sono molto contento, ma il cambio di paradigma è un’altra questione. La realtà è che in questo meccanismo ci sono dentro anche io. Non esistono puri. Viviamo dentro a un meccanismo capitalista di terza generazione. Tale sistema impone determinate scelte aziendali indirizzate verso la crescita. Le prospettive di cambio postulate dalle scienze umane-ambientali (enviromental humanities) non sono attuabili, né oggi né domani, ma rappresentano una tendenza che cerchiamo nel contemporaneo di avviare.
*termine che indica ecologismo di facciata(ndr)
Domanda. Dalle pagine del libro emerge un aspetto inedito della viticoltura ed enologia così come abbiamo imparato a conoscerle; tali discipline nella tua visione si arricchiscono di palesi elementi antropologici che ne amplificano la comprensione. Che cosa comporta nel lavoro di vignaiolo tale consapevolezza?
Corrado Dottori. Il cambio di paradigma è qui possibile. L’idea produzionista è tesa verso il prodotto finale: la merce. Il percorso che porta alla merce può essere ridiscusso come abbiamo detto ma il fine è entrare sul mercato. Per me la sfida è invertire il senso: usare la merce come un mezzo non come fine. Il vino esiste perché esiste un organismo ambientale; un terroir. Nel libro parlo di costruzione di oasi. Dovremmo interpretare il prodotto finale, che ci permette di vivere, non soltanto come bilancio economico, e quindi come punto d’arrivo, ma declinarlo per ciò che ormai diventa fondamentale e cioè riprodurre biodiversità, contesti ambientali e, in una parola plurale, ecologie. Questa inversione è complicata. Siamo abituati a pensare ai mezzi produttivi appunto solo per la produzione di qualcosa. Anche l’unico modello alternativo esistito, quello socialista, parlava di mezzi di produzione. Non ci siamo mai liberati da questo aspetto. Nel contesto agricolo i mezzi di produzione coincidono con la vita stessa: ecco la vera ricchezza. Noi dobbiamo essere coloro che la difendono e, se possibile, la incrementano.
Domanda. Una suggestione deriva dal fatto che pensare la viticoltura, come intreccio tra tecnica e storia culturale (locale e globale) e agricola, abbia dirette conseguenze sul vino realizzato. Cosa ne pensi anche in relazione al tuo percorso agricolo in un contesto geografico molto importante, come quello delle colline di Jesi, che ha imposto certi stilemi produttivi dai quali ti sei svincolato?
Corrado Dottori. Questo è uno degli aspetti più esaltanti del nostro lavoro e di quello che è stato fatto negli ultimi anni. Abbandonare la logica del prodotto finito per focalizzare l’attenzione sul rapporto tra uomo, pianta e contesto ecologico ha fatto sì che in modo naturale, in questo caso il senso della parola naturale è pregnante, venisse amplificata l’espressione stilistica dei vini. A mio avviso, però, oggi si corre il rischio di omologarsi proprio sulle tipologie di vino prodotte. I bianchi macerati, i vini da macerazione carbonica sono proposti in maniera pervasiva proprio perché ubbidiscono a una richiesta di mercato. Tornare al protocollo, all’attenzione solo verso il prodotto finito implica un passo indietro. All’inizio c’erano sicuramente dei modelli di riferimento per i vignaioli che lavoravano in vigna in modo diverso ma l’inclinazione era sicuramente più spontanea e lo stile di vino era dettato dal comportamento della vigna. Inserire il vino in un calderone stilistico è una tendenza commerciale che disperde il senso del lavoro agricolo. Mi vengono in mente i rifermentati in bottiglia o, ancora di più, i vini in stile ossidativo; liquidi cioè limitati a certe zone e terroir particolari che il movimento dei vini naturali ha moltiplicato correndo il rischio di lacerare il forte legame territoriale di questi vini con la propria origine. L’originalità espressiva non è questione di protocolli ma ha origine vegetale. Basti pensare ai vini ottenuti da viti vecchie e vinificati in modo poco invasivo. Il loro sapore è originale. Anche in prospettiva, con il cambiamento climatico, i vini cambieranno perché, semplicemente, cambierà il frutto. Dovremo cambiare i nostri gusti con tutta probabilità. Le piante stanno già reagendo al cambiamento climatico perché molto più adattabili degli animali. Non possiamo pretendere di cambiare le piante (che lo stanno già facendo) in nome di un fantomatico protocollo gustativo. L’adattamento delle piante, tra l’altro, porterà all’estinzione delle Denominazioni d’Origine. Anzi, sono già morte. Create in un contesto talmente diverso rispetto ad oggi non testimoniano più la reale situazione viticola italiana.
Domanda. Mi pare che siamo giunti a un altro punto cardine del tuo libro: l’Antropocene che è un altro filo rosso che collega gli argomenti di Come vignaioli…o meglio sembra innervare il tuo lavoro agricolo non solo nei suoi risvolti pratici ma anche politici. Mi ha colpito molto il riferimento all’antropologa americana Anna Tsing e in particolare al concetto di rinascita, riferito all’Olocene, e piantagione, riferito all’Antropocene. Potresti riassumerci questa differenza declinandola nella viticoltura italiana?
Corrado Dottori. Il tema è complesso. Il termine Antropocene è ancora dibattuto ma diamo per acquisito che siamo in un’era geologica dove la nostra specie è dominante. Detto questo allora risulta utile fare dei confronti con il tempo che ci ha preceduto e quello che verrà. L’era dell’Antrapocene è caratterizzata dalla piantagione; il termine inglese è plantation utilizzato anche in modo estensivo non solo per le piante ma anche per le imprese umane come, ad esempio, le fabbriche; in generale l’idea di fondo è che noi viviamo in un’era di riproducibilità tecnica. L’industria è connotata dalla riproducibilità. Anche le piante secondo questa logica sono da riprodurre; Anna Tsing porta l’esempio delle serre e di come la vita venga riprodotta in vivaio. Pensiamo ai vivai dove si acquistano le barbatelle. Di fatto facendo un’industria. Pensiamo alla questione degli Ogm. Le tecniche cisgenetiche recentemente oggetto di discussione alla Commissione Agricoltura alla Camera, come stabilito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sono, a tutti gli effetti, tecnologie di modificazione genetica. Grazie alla pressione dell’apparato delle biotecnologie industriali c’è il forte rischio di uno sdoganamento. Questo è il segno dell’Antropocene ovvero di una natura costantemente manipolata e riprodotta. Rispetto a questo atteggiamento, l’antropologa Tsing porta l’esempio dell’Olocene e delle glaciazioni con il costituirsi di rifugi o oasi naturali dove i semi potevano preservarsi per l’epoca successiva. Noi siamo in una fase in cui dovremmo porci in questa prospettiva: in un mondo che è tutto riprodotto industrialmente e sulla via dell’autodistruzione iniziare a ragionare sulla conservazione e rigenerazione per l’era successiva.
Domanda. L’anno appena passato, così come questo gennaio, è stato invaso in ogni suo spazio dalla pandemia. Sembra in questo momento sopita la lotta al cambiamento climatico, emersa forse in risposta al tiepido impegno degli Stati riguardo l’accordo universale stabilito a Parigi nel 2015, che aveva caratterizzato il periodo storico antecedente al Corona virus. Qual è la tua opinione a riguardo e cosa ti aspetti dal 2021?
Corrado Dottori. So di dire una cosa forte. In realtà credo che il virus abbia accelerato certe dinamiche e acuito alcune contraddizioni. Fino a quando il cambiamento climatico è rimasto una cosa lontana da noi, abbiamo continuato a comportarci più o meno nello stesso modo. Dagli anni Sessanta si parla di ecologia. La novità portata dalle nuove generazioni, simboleggiate da Greta Thunberg, è il fatto che il punto di non ritorno si è avvicinato parecchio. L’arrivo del virus ha affermato le stesse problematiche del cambiamento climatico ma lo ha fatto all’improvviso. Voglio dire che la pandemia ci pone le stesse domande del riscaldamento globale, solo che non abbiamo risposte. O meglio non abbiamo le strutture istituzionali ed economiche che servirebbero per il cambiamento climatico e ora, con il tempo che non basta, per il virus. Si è creato uno sfasamento. Qualcuno sta provando a mettere insieme questi due elementi: virus e clima perché in realtà la pandemia stessa è frutto dell’Antropocene. Abbiamo aggredito sistemi naturali creando ammassi urbanizzati, la globalizzazione stessa ha accelerato il virus, anzi siamo il vettore perfetto del virus; 7 miliardi di esseri umani che si muovono velocemente da un capo all’altro del mondo. Se posso aggiungere una cosa: il virus ha evidenziato il rapporto tra ecologia-economia. Se ci pensiamo bene il virus in questo anno è stata la gigantesca scelta tra salute ed economia che altro non è, nel lungo periodo, il tema tra ambiente ed economia. Quello che non si riesce a capire è che l’economia non è più un’opzione praticabile. L’economia non è un valore ma deve rappresentare un mezzo. Sia per la pandemia sia per la natura, il fattore economico non può rappresentare la controparte di valori come la salute e l’ambiente. Senza la salute non esiste economia, senza l’ambiente non esiste la vita e quindi l’economia. L’uomo si è dotato dell’economia come strumento che può migliorare la salute o l’ambiente ma non può essere assunto a paragone, eppure lo abbiamo elevato a valore. Serge Latouche ha postulato l’uscita dall’economia ma non nel senso di utopico di un ritorno all’Eden perduto bensì in un profondo ripensamento della stessa. Dal mio punto di vista riflettere sul valore originario dell’economia consente una presa di distanza da ciò che oggi rappresenta. A fine Settecento l’economia nasce come disciplina per dare valore agli oggetti; trattava di valori e non di prezzi. Questo credo possa significare l’uscita dall’economia, cioè il ritorno a una disciplina che abbia al suo interno l’essenza di valori reali.
Domanda. Tra le fonti del tuo libro e volume che, a suo tempo, mi consigliasti di leggere vi è Tracciare la rotta di Bruno Latour. Il sociologo francese costruisce uno schema a due vertici attrattori definiti Locale e Globale. Quest’ultimi rappresentano le direzioni cui tendono tutti i movimenti politici e sociali che, dalla rivoluzione industriale a oggi, comprendono bene gli avvenimenti storici fino, se sei d’accordo, all’Antropocene (Destra e Sinistra, Capitalismo e Proletariato, Sovranisti e Europeisti, ecc ecc). Latour a proposito dello stravolgimento climatico inserisce un terzo polo d’attrazione che definisce Terrestre. In questo vertice, deviato dall’asse Locale/Globale, dovrebbero raccogliersi le istanze più contemporanee del mutamento dei paradigmi, non solo di lotta al cambiamento climatico, scevre dalla categorizzazione che la storia dei movimenti sociali imporrebbe loro. Seguendo tale rappresentazione in quale spazio potrebbe collocarsi la viticoltura artigianale che tu rappresenti?
Corrado Dottori. La riflessione di Latour, a mio avviso, è molto interessante perché sgombra il campo dall’utopia collocando il “da fare” su un piano di realtà. Lui è molto concreto quando mette in evidenza i movimenti che hanno portato prima a criticare la globalizzazione perché pericolosa, come in effetti è, salvo poi ricadere in un localismo dal quale sono nati nazionalismi e populismi che hanno generato fatti come la Brexit, l’elezione di Trump o i movimenti fascio-leghisti italiani. Si è pensato insomma che rinchiudersi nei propri confini potesse risolvere i danni della globalizzazione. Il virus ha scardinato ovviamente tale convinzione interrogando la specie umana, tutta. Per questo dico che non riesco a odiarlo, il virus; nonostante sia consapevole dei drammi umani che ha creato ci ha ricordato che siamo un’unica specie sul pianeta terra. Latour una via d’uscita la indica anche se molto complicata. Ci invita a una nuova alleanza che consiste nel non individuare il Terrestre solo nell’essere umano. Una proposta è quella di dare rappresentanza legale alle piante. Se l’Amazzonia avesse una personalità giuridica rivendicabile si potrebbe intentare una causa contro il suo sfruttamento da parte dei governi nazionali. Si tratta di un’idea molto avanzata dal punto di vista dei diritti. Venendo alla tua domanda il pensiero Terrestre imporrebbe un ripensamento del paradigma di tutta la viticoltura contemporanea: non è roba da poco. Pensiamo ai protocolli dei disciplinari enologici. Da una parte sono stati scritti per l’industria e va bene, ma se proviamo a guardare secondo il punto di vista suggerito da Latour sono stati scritti esclusivamente per l’Homo Sapiens e il fine della produzione della merce finale. Non era proprio concepito il vino come risultante di una interazione ecologica. Mettersi nella logica Terrestre potrebbe portare alla stesura di un disciplinare che tuteli non solo il vino finale ma anche il contesto ecologico. Per esempio: perché non dare la doc solo a vini che siano biologici o biodinamici? Anche se non cambierebbe il paradigma produzionista o industriale potrebbe rappresentare comunque un primo seme. La prospettiva dei biodistretti è un’idea che sicuramente va in quella direzione perché focalizza l’attenzione su un sistema complesso di paesaggio e non solo su un aspetto di esso. Il luogo è importante tanto quanto la merce che lì si produce.
Domanda. Come vignaioli è anche un diario dell’attività agricola e commerciale in un anno normale di un’epoca che pur dietro l’angolo appare distante. Come è cambiata la vita a La Distesa e quali riflessioni scaturiscono da una viticoltura meno comunicata e più praticata?
Corrado Dottori. Devo dire che anche prima della pandemia avevo rallentato l’andatura veloce che comportava il mio ruolo di vignaiolo. Gli ultimi progetti, qui in azienda, hanno riguardato la produzione di pasta e di birra. Il vino è una grande passione ma il rischio che diventi totalizzante è davvero alto. Anche qui rischio di sembrare antipatico ma, in realtà, dal punto di vista della quotidianità non è cambiato granché. Certo la problematica delle famiglie lontane si sente ma viviamo in campagna e il confinamento, quando hai a disposizione l’aria aperta, è meno doloroso. A Marzo 2020 le preoccupazioni erano più che altro rivolte alla sostenibilità dell’azienda; lavorando esclusivamente con Ho.Re.Ca. ed estero la prospettiva appariva buia. Ma per fortuna passata la tempesta, siamo ancora qua. Penso, anzi spero, che il disastro della pandemia abbia fatto almeno maturare la consapevolezza dell’impossibilità di un mercato sempre in crescita con la conseguenza di investimenti di milioni di euro in cantine faraoniche o aumenti spropositati dei prezzi del vino. Non voglio prospettare una decrescita, soltanto auspico un maggiore equilibrio di mercato. Questo riguarda anche certe scelte di vita come ridurre gli innumerevoli spostamenti di carattere commerciale che noi vignaioli eravamo portati a fare. Non posso non notare questa cosa. Negli ultimi trenta anni di libero mercato siamo condizionati dal commercio, tutto era sottoposto a vincolo di bilancio. Fino a ieri non si poteva investire nel pubblico perché c’erano i famigerati freni imposti dal confronto europeo. Il virus ha fatto saltare questo schema in apparenza inscalfibile. Quindi c’era la possibilità; allora si poteva fare? Allora, ripeto, forse era una questione ideologica. Ma nessuno ne parla. Tornando quindi alla dicotomia ecologia/economia, forse un ripensamento è possibile, senza mandare a monte il sistema. Infine allora scegliere una vita più sostenibile è alla nostra portata, basta volerlo.
Riflessioni profonde e stimolanti e, per quanto mi riguarda, largamente condivisibili.
Dottori è una di quelle persone che mi hanno fatto avvicinare a questo mestiere. Soprattutto nei campi stanno oggi i veri intellettuali.
Grazie del commento, Luca. Anche per me il vignaiolo di Cupramontana è fonte di ispirazione. E qualcosa delle parole di Corrado sento nei tuoi vini. Fabio