Ho incontrato Daniele Parma in una calda mattinata di giugno; ci siamo dati appuntamento presso un bar fuori il casello dell’uscita Lavagna su una delle autostrade più tormentate del nostro tormentato paese. L’imbarazzo di incontrare una persona conosciuta soltanto attraverso i suoi vini svanisce presto al bancone di questo piccolo locale.

 

Ascolto una serie di botta e risposta in dialetto ligure tra Daniele e la signora dietro al banco. Comprendo dagli sguardi sarcastici e dal suono delle frasi scambiate rapidamente che è una specie di teatro, una recita della quale oggi sono io lo spettatore. Intanto la signora prepara il caffè solo per me; per il suo, Daniele aspetta un ragazzo, probabilmente il figlio della signora, al quale si rivolge sempre in dialetto. Ora i motti verbali sono polifonici; a essi contribuisce un altro signore, marito della donna credo. Dopo che Daniele ha pagato i caffè realizzo che nel bar nessuno ha spiaccicato una parola in italiano.

 

«In ligure lo chiamiamo “menaggio” – mi dice Daniele il quale, forse, ha notato la mia faccia inebetita – rompere il “belino” in ogni situazione; al bar succede sempre, in Liguria succede sempre». Mi sembra, dopo nemmeno trenta minuti di presenza in questo pezzo di Liguria tra Rapallo e Sestri Levante, di essere già in un altrove culturale con regole e consuetudini proprie nonostante i palazzi, i bar, le officine e gli uffici abbiano le sembianze comuni e condivise di ogni spazio urbano italiano.

 

Il paesaggio esterno modella se stesso secondo l’estetica uniformante della globalizzazione, ma il segno di ogni diversità, il tratto fondante delle differenti comunità conserva la propria originalità dentro l’essere umano e si manifesta nei suoni emessi, nella prossemica e nella semiosi dei linguaggi.

 

Daniele Parma appartiene alla folta schiera dei vignaioli liguri che negli ultimi anni hanno saputo valorizzare la viticoltura regionale secondo i canoni dell’artigianalità, nel tentativo di produrre vini il più possibile territoriali e personali. Il suo percorso nasce da una frattura generazionale. Negli anni ottanta il padre fondò un’azienda viticola basata sul conferimento delle uve. «Non ha mai toccato un pezzo di terra; credo odiasse il lavoro agricolo – ricorda Daniele – ho iniziato con lui appena finiti gli studi; durante la vendemmia aspettavo la processione dei trattori carichi di uva per la pesa; stavo ore ad ascoltare i discorsi dei contadini, ero affascinato dalle parole dialettali con le quali descrivevano il lavoro in vigna e la qualità delle stagioni».

 

Il riferimento al dialetto è un passaggio nel racconto di Daniele che mi colpisce e che richiama l’incontro al bar. Stigmatizzato come emblema di un popolo rozzo, analfabeta e incivile, il dialetto è stato riabilitato da alcuni giganti della letteratura italiana tra i quali Giovanni Verga, Carlo Emilio Gadda, Luigi Meneghello, Pier Paolo Pasolini e, per finire, Andrea Zanzotto che ebbe a definirlo non una lingua accanto alle altre ma l’espressione della parola più vicina alla sua sorgente cognitiva e quindi la parola più prossima al pensiero innato. È in questa immagine di una semantica in anticipo sulla grammatica e quindi di un significato privo di una codifica scritta ma afferente a conoscenze intuitive che il dialetto assume potenza espressiva, il suo profondo valore antropologico.

 

Ecco cosa mi aveva così stupito al bancone del bar: non avevo capito nulla ma avevo compreso tutto.

 

Nel 2004 Daniele si mette in proprio e comincia un lavoro agronomico di avvicinamento all’essenza del territorio. Esalta varietà locali come bianchetta genovese e vermentino e recupera uve a bacca rossa non molto celebrate da queste parti quali sangiovese e ciliegiolo. Insieme visitiamo tutte le vigne gestite direttamente da lui. Sono numerose parcelle che compongono un paesaggio mediterraneo splendido e abbacinante, sparse in frazioni che raccontano la storia più intima della Liguria molto lontano dalla costa: Né, San Salvatore, Carasco, Cogorno, San Bartolomeo. Alcuni sono davvero spettacolari come la vigna Crosa di bianchetta in località Verici che offre uno spettacolare panorama sul Golfo del Tigullio oppure il vermentino ai piedi della basilica dei Fieschi a San Salvatore. I suoli sono vari; si va da composizioni galestrose, sabbia e la tipica ardesia ligure (il nome Lavagna dovrebbe far capire subito l’origine geologica del luogo) che affiora evidente nella storica vigna verticale di sangiovese e ciliegiolo vicino la cantina a Né. Fino al 2010 la conduzione è convenzionale, ma tale viticoltura non soddisfa l’inquieto vignaiolo il quale si accorge di quanto la chimica faccia male alle piante e al vino e non riduca affatto le patologie delle piante.

 

L’incontro con Stefano Bellotti, il compianto vignaiolo di Cascina degli Ulivi e Saverio Petrilli, enologo della Tenuta di Valgiano, stimolano una riflessione e in seguito una sperimentazione di viticoltura biodinamica dalla quale Daniele non tornerà più indietro. Dal 2017 gli ettari aziendali, che oggi sono circa 9, sono gestiti secondo questa disciplina agricola.

 

Attraverso la biodinamica Daniele ha realizzato completamente la sua vocazione agricola, innata grazie al nonno contadino, intuita nell’ascolto dei discorsi dei viticoltori liguri nella cantina paterna, inseguita in anni di pratica convenzionale ma rivelata soltanto grazie a un approccio complesso e attento in cui l’uomo è al centro dell’organismo agricolo. È del tutto naturale che un percorso del genere abbia avuto conseguenze nel lavoro enologico.

 

«Il dialetto ligure ha una parola specifica per la buccia dell’acino – racconta Daniele – ­l’epidermide di un frutto generico è detta scorza, per quella dell’uva noi diciamo berette. Ciò significa che per la nostra cultura ligure la buccia dell’uva è importantissima. Sono partito da questo per dare senso al mio fare vino».

 

L’acino nella sua integrità è il fulcro delle vinificazioni alle quali Daniele ha tolto ogni sovrastruttura enologica a partire dall’impiego di lieviti selezionati e di solforosa. Il processo naturale di trasformazione richiede cura e capacità. I materiali usati per contenere ed elevare il vino sono acciaio, cemento e terracotta. Sottrarre la solforosa espone il vino a deviazioni batteriche; il tema della pulizia è centrale nel dibattito sul vino naturale, anzi ne rappresenta l’aspetto saliente perché concerne il gusto e la piacevolezza dell’espressione territoriale.

 

Per evitare criticità i vini dell’azienda hanno un lungo percorso di contatto con l’ossigeno. L’argilla è ideale per l’ossidazione controllata della materia in quanto permette uno scambio proficuo tra liquido e aria senza incidere sul gusto come accade con il rovere. Senza aggiungere solforosa nemmeno in fase di imbottigliamento, l’ossigeno è l’unica arma a disposizione per mettere il vino in una condizione di stabilità evolutiva. L’altra prerogativa nella vinificazione è il contatto con le bucce che rende l’insieme complesso e strutturato, in grado di racchiudere l’aria senza perdere leggerezza e dettaglio aromatico.

 

 

Le etichette dell’azienda sono in continua evoluzione e seguono il moto perpetuo di Daniele. Difficile riportare i tanti vini assaggiati in cantina; il ritmo è forsennato e il fluire del vino dentro diventa una splendida altalena di emozioni alcoliche sulla quale è lieto abbandonarsi alle chiacchiere e a se stessi. Ricordo da anfora la Bianchetta 2021 in attesa di congiungersi con quella fermentata in acciaio. Densa e salina, materica e slanciata. La sua metà in Inox è tesa, quasi rigida. Le immagino insieme e credo funzioneranno alla grande. Intuisco un grande Vermentino 2021 con una macerazione di 7 mesi e 23 giorni, svinato il 25 maggio. Vino splendido per carica aromatica fatta di pepe bianco, rosmarino e corpo slanciato, lunghissimo. Riguardo ai vini in bottiglia: il Ninte de Ninte 2018, bianchetta genovese, segna il palato con leggiadria, sale e sapore per una splendida armonia complessiva. Il Berette 2019, vermentino, esprime ampiezza, un filo eccessivo di ossidazione recuperata dal finale che chiude netto, pulito. Dalla vendemmia 2020 il Berette sarà l’unico Vermentino prodotto in azienda dato che la sua versione in anfora l’Oua, realizzato fino al 2019, andrà a comporre un unico vino.

 

Gli assaggi in cantina confermano le impressioni che mi hanno condotto qui. Sono vini complessi che spingono l’identità del territorio di origine in sentieri gustativi inediti. Nel lasciare il luogo sicuro del compromesso enologico i vini di Daniele Parma richiedono, per godere a pieno dell’esperienza gustativa, l’abbandono della degustazione come pratica analitica a favore di un’esperienza propriamente intuitiva e alimentare. Funzionano, in poche parole, come il dialetto.

 

Rimane il tempo per un pranzo veloce. Di corsa andiamo alla trattoria Beppa a Carasco, molto vicino alla cantina. Ci mettiamo a sedere. I piatti sono squisiti. Daniele ha portato un paio di bottiglie dei cosiddetti Fucking Wines, vini nati da qualche accidente occorso nell’anno di produzione. Intorno a noi arrivano i proprietari, credo, della trattoria: con Daniele iniziano a dialogare in dialetto, si accalorano e alzano la voce. Non mi preoccupo. È il menaggio, ormai ho imparato.

 

Daniele Parma

Az.Agricola  La Ricolla

Via Giuseppe Garibaldi, 12/2

Ne, Genova

Tel +39 392 896 3918

Mail: laricolla2004@gmail.com

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Da Pubblicato il: 1 Luglio 2022Categorie: Blog0 Comments

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