Il paesaggio del Chianti Classico è un dedalo stupefacente di vita umana e vegetale. La sua conformazione originale è stata lentamente plasmata dell’uomo con strade, coltivazioni ed edifici che nei secoli hanno formato l’odierna meraviglia. Esiste una stratificazione visibile della storia di questa relazione: basta avere la pazienza di osservare. Gli agriturismi, le osterie o ristori e le cantine sono le trasformazioni subite dai vecchi edifici rurali, le seriali vigne a rittochino, in precise file verticali, hanno sostituito quelle poste sensatamente a girapoggio o addirittura le viti promiscue, abbracciate agli alberi, di antica memoria contadina; le strade, infine, sono di asfalto e portano in giro migliaia di turisti (certo prima del periodo Covid) e appassionati di vino per i comuni che costellano il territorio. Vedere la fisionomia del passato sotto il velo della contemporaneità restituisce la giusta prospettiva critica di una modernità necessaria ma che, nel caso della viticoltura, ha stravolto la sapienza di un paesaggio contadino strappato alla natura per una corsa veloce verso la meccanizzazione e il lavoro agricolo posto a bilancio aziendale. E in questo contrasto tra velocità odierna e lentezza del passato che si misura la differenza tra agricoltura di ieri e quella di oggi. La strada d’asfalto, dicevo, ne è uno degli esempi più evidenti; l’auto corre sicura sulle curve ben disegnate costeggiate da vigneti geometrici, oliveti e ristori ma se la fortuna impone la deviazione sterrata ecco che il passato appare nella sua cadenza naturale; lo sterrato rallenta il mezzo e lo sguardo si posa su scenari subliminali dove i dettagli si palesano. Il bosco di querce diventa predominante, la vite rada e antiche balze evidenziano segni di una pratica agricola diversa.
Più o meno questi sono i miei pensieri mentre svolto a sinistra all’incrocio della Madonna di Pietracupa per raggiungere Casavecchia alla Piazza e incontrare Gabriele Buondonno. Buondonno appartiene alla generazione campana di vignaioli in Chianti Classico. Arrivato a fine anni Ottanta, dopo la laurea in Agronomia a Napoli e un periodo di lavoro a Casina di Cornia a Castellina in Chianti da Antoine Luginbühl, decide di acquistare, in località Casavecchia alla Piazza, un piccolo podere. Sono gli anni della rinascita, paesaggistica ed economica, del territorio che offre grande vocazione viticola a prezzi, tutto sommato, accessibili per chi vuole fare il viticoltore e chi industria del vino. Casavecchia alla Piazza è una piccola frazione di Castellina in Chianti. Per arrivare da lui si lascia la strada di Sicelle che collega San Donato in Poggio a Panzano in Chianti. Poco prima del borgo La Piazza c’è una piccola strada sterrata che, con una curva a gomito ben fatta, si riesce a imboccare alla prima manovra.
Ecco il Chianti di un tempo. Il bosco e poi qualcosa di raro: viti antiche, alcune palificate per sostenerne l’imponenza, altra abbracciate agli alberi in un intreccio vegetale magnifico. L’erba sfalciata e la pulizia delle viti indicano che il luogo è custodito. Avanti sullo sterrato appare un lavatoio in pietra usato un tempo per lavare i panni, anche questo liberato dalle infestanti e pieno d’acqua. Gabriele mi aspetta davanti alla cantina. Oggi l’azienda conta su 14 ettari vitati, tutti in prossimità del nucleo aziendale, compresa la porzione in affitto a Sicellino dall’altra parte del poggio boscoso che da lì a poco percorreremo a piedi. Ma la prima sosta della passeggiata sono proprio quelle viti maritate viste poco prima. «Si tratta di viti vecchie di varietà sconosciute – mi dice Gabriele – che ho voluto riportare in produzione prendendole in affitto. Le viti sono maritate al cosiddetto Testucchio ossia l’Acer campestris. È una testimonianza della viticoltura prima della specializzazione. L’acero è il tutore della vite». Si tratta di pochi quintali di uva vinificati in ceramica da cui si ottiene il Lèmme Lèmme. In Toscana lèmme lèmme è un’espressione idiomatica per definire l’andamento pacato ma convinto. «Le vigne vecchie si comportano così – sorride Gabriele – vanno piano ma sanno dove andare».
È impossibile per me rendere la splendida cadenza orale di Buondonno che restituisce l’arte retorica partenopea in tutta la sua eleganza, ironia e amore per la parola.
Torniamo verso il centro aziendale attraverso le vigne; un paio di cavalli sono liberi tra i filari, la presenza animale arricchisce la bellezza di questo paesaggio. «Il loro pascolo serve a molteplici scopi – mi dice – letame per concimare e sfalcio naturale dell’erba». I filari sono lavorati file alterne con leggere fresature. Sono letti di semina per il sovescio. I sistemi di allevamento sono disparati; vedo cordone speronato, guyot e archetto toscano. «All’inizio degli anni Novanta, il Chianti Classico non aveva una direzione agronomica ed enologica ben definita. Il cordone speronato era il sistema d’allevamento più diffuso così come l’impianto di varietà internazionali per aiutare il sangiovese. Era un’altra epoca; oggi per fortuna siamo più consapevoli ma anche più vecchi». In lontananza vedo una donna china sulle viti intenta a potare. «Si inizia presto – mi dice – con circa 14 ettari dobbiamo organizzarci». Siamo nella parte più alta dell’azienda al limitare di un bosco di querce. Entriamo in un viottolo che incrocia una strada di pietre. Questa è l’antica via maremmana che conduceva verso Grosseto usata per trasportare merci e vicende umane. Un altro strato disvelato della storia sotto ai nostri piedi. Siamo su un crinale che si affaccia a nord riportando lo sguardo verso San Donato in Poggio coperta dal folto del bosco. La pelle avverte il cambio di temperatura, l’olfatto è pervaso da balsamici effluvi boschivi. «Si cambia totalmente esposizione – continua Buondonno – qui siamo a nord. Le vigne di Sicelle e Sicellino godono di questo clima. Entrambe sono esposte a nord-est, mentre le vigne al podere hanno esposizione sud-est; una bella differenza che posso utilizzare in cantina». Sempre su questo versante scendiamo verso una specie di anfiteatro erboso circondato dal bosco. «Qui c’era una vecchia vigna – mi dice Gabriele – ormai al limite della produttività. Ho vinificato qualcosa lo scorso anno e ora sto preparando il campo per un vigneto futuro. Circa un ettaro con esposizione nord, nord est dove sto pensando di piantare sangiovese, senza dubbio, e un bianco che ancora non ho deciso». Torniamo alla luce mattutina del podere Casavecchia. Passiamo dietro l’azienda dove il vigneto di sangiovese lavorato rivela il suolo che è comune in questo versante galestro e alberese che punteggiano una matrice fertile di argilla scura. Dietro questa vigna il ricovero dei cavalli, il pollaio vuoto (le galline razzolano in giro intorno a un bel cipresso secolare) e un angolo quasi segreto con un’altalena e un braciere. L’impressione è quella di una coincidenza tra quotidianità e lavoro in equilibrio armonico e percepito nei dettagli di un paesaggio valorizzato e vissuto.
Gli assaggi in cantina
Le fermentazioni sono in acciaio e gli affinamenti in legno. Le dimensioni delle botti dipendono molto dagli spazi ricavati in cantina che occupa i sotterranei di un’antica casa colonica. A vivacizzare i classici affinamenti del Chianti Classico compaiono in cantina bellissimi orci in ceramica utilizzati per vinificare il Lèmme Lèmme. Partiamo proprio da lui con la vendemmia 2019 in via di affinamento. È vino materico, denso con tannino in evidenza e aromi balsamici. Ho confidenza con questi vini ancestrali che ricordano i vini di contadini talentuosi; liquidi focalizzati sulla viscosità della materia e una certo rigore rustico di fondo. Chiedo il prezzo. È abbastanza alto. Mi viene da pensare come i parametri di valore di un vino siano cambiati rispetto al passato. In certi contesti enologici il prezzo del vino era dettato dai mesi di permanenza in barrique senza alcun lignaggio ampelografico. Per fortuna qui è un’altra storia. Vigne monumentali meritano attenzione e il vino che ne deriva, scevro da morbidezze, ha valore proporzionale. In un piccolo orcio trovo la vinificazione irripetibile della vigna espiantata: fine e ampio, incisivo e pieno di aromi delicati. Incerto il suo destino da attore unico per un particolare imbottigliamento oppure diventare importante contributo al Lèmme Lèmme. Il Chianti Classico 2019 in botte è fitto di tannino, profondo per freschezza acida con parte alcolica emolliente in evidenza e ben integrata. Si tratta di un campione di botte che promette bene. Il Chianti Classico Riserva 2018, sempre da botte, ha profondità e volume. Proviene principalmente dalle vecchie viti di Sicellino e una porzione ben individuata di Casavecchia alla Piazza. Ha espressione nobile di vini che non temono l’ossigeno e l’ossidazione che ne deriva è intrecciata alla naturalezza espressiva carica di aromi terziari e terrosi con tannini magistrali. In un’altra parte della cantina vi sono le anfore. Si tratta dei vini prodotti per una particolare linea del distributore italiano dell’azienda: Velier. I vini WaW vale a dire vini vinificati in anfora a grappolo intero senza alcun tipo di aggiunta. Mosto fermentato, in sintesi, definito da Velier vino primordiale. La ricetta originale messa a punto dalle ideatrici giapponesi del progetto, le fotografe Keiko Kato e Maika Masuko, prevedeva un uvaggio tra uve bianche e rosse a netta predominanza delle prime. Dopo aver apprezzato l’esperimento, Gabriele ha deciso di invertire la proporzione di fatto celebrando la forma originale del Chianti, la celeberrima ricetta di Bettino Ricasoli. In anfora c’è il 2020, il 2019 è in bottiglia e lo assaggerò con gli altri vini che comprerò alla fine dell’incontro. Rimane il tempo per alcuni assaggi veloci delle masse dell’ultima vendemmia che stanno facendo il loro corso nel grande portico delle fermentazioni. Se vi dicono che vedere i luoghi delle fermentazioni è inutile “perché sono tutti uguali” non ci credete; chi lo afferma non conosce la parte umana del vino. In particolare a poche settimane dalla svinatura, sono luoghi che traspirano l’anima di una realtà viticola. La fermentazione è un processo vitale di portata eccezionale; perché essa avvenga e si svolga al meglio occorre continua attenzione e presenza dell’essere umano. Durante una vendemmia attorno all’uva vi sono innumerevoli accadimenti, giornate infinite che si svolgono intorno al vino, fisicamente. Questa umanità lascia tracce. Un luogo senza tracce non ha vitalità. A Casavecchia alla Piazza, i tini in acciaio sono posti sotto una tettoia esterna alla cantina. C’è una macchina del caffè e soprattutto un bel tavolo da ping-pong accuratamente piegato e infilato, perfettamente, tra due tini di fermentazione. «La vendemmia è stata lunga» dice con un sorriso Gabriele. Compro vino alla fine; lo sfuso, il fiasco e qualche bottiglia. La produzione di sfuso è in continuità con la relazione naturale tra chi produce vino e l’agricoltura svolta. In una gerarchia crescente e selettiva di uve e di risultati, più o meno soddisfacenti, degli affinamenti, lo sfuso è per sua natura il vino più prossimo al frutto di partenza, nel bene o nel male. È il vino collettivo per antonomasia e chi ne tiene conto conosce i plurimi significati, anche antropologici, del bere. Saluto Gabriele e mi rimetto in auto. Lo sterrato lascia posto all’asfalto e la polvere alzata chiude allo sguardo lo squarcio mattutino di una viticoltura tranquilla in una minima porzione di Chianti Classico che mi è parsa sterminata.
Che bellllllllissimo leggerti❤️👏🌈
Leggere queste righe Fabio, è come tornare a casa. W il Chianti Classico!
Grande Fabio! Ad Maiora
Ben tornato, Fabio!
Che bello leggerti! Un abbraccio grande!
Bellissimo pezzo
È un piacere grande leggerti Fabio. Molto bello.
Che belloo!! Grazie Fabio Grazie Gabriele!!
Leggendolo ci si immerge in quella natura, in quei profumi, in quei sapori. Senso di pace!