Tre poliziotti israeliani stanno schiacciando nella sabbia del deserto del Negev la testa di un ragazzo. Il suo viso è sofferente, assetato e costretto nella polvere da braccia violente. La foto, presa da Internazionale del 21 Gennaio scorso, fissa un momento della lotta tra i beduini del Negev e il braccio armato dello stato di Israele. Le proteste delle popolazioni del deserto contro Israele sono nate a causa del progetto statale di forestazione di questa regione, luogo marginale nel quale generazioni beduine hanno imparato a vivere da tempi ancestrali.

 

 

Sembra un paradosso: siamo abituati a ruspe che abbattono foreste per espandere la cosiddetta civilizzazione, per quanto tale termine possa apparire ormai fuori dal tempo. Piantare alberi è un gesto dal valore simbolico soprattutto in un’epoca come questa dove cambiamento climatico e desertificazione compromettono l’equilibrio ambientale di enormi sistemi naturali. In questo caso invece la prevaricazione coincide con un’azione solo in apparenza ecologica. Per Israele si è trattato di un atto dispotico, compiuto per liberare un intero territorio dalla presenza araba, nonostante i beduini abbiano sempre vissuto a contatto con il deserto.

 

Il rimboschimento del deserto è la patina che copre una repressione culturale portata avanti con la forza. A scatenare le azioni di protesta dei beduini è stato l’abbattimento di alcuni villaggi nell’area di Beersheba Naqa. Israele sostiene che i centri abitati siano insediamenti abusivi su suolo demaniale e la relativa bonifica possa avere conseguenze ambientali positive per tutti. Il governo israeliano vorrebbe segregare le popolazioni arabe in villaggi riconosciuti dal governo.

 

Secondo l’attivista Riya al-Sanah «Piantare alberi è un metodo per nascondere la presenza di comunità palestinesi. Così, per esempio, molti dei parchi nazionali d’Israele sono costruiti sui resti di villaggi palestinesi. La forestazione è anche un meccanismo che viene usato per impedire ai palestinesi di tornare alla loro terra una volta che sono effettivamente sfollati – dice al-Sanah, elaborando il motivo per cui piantare gli alberi ha causato una reazione così forte – è un passo verso lo sfollamento delle comunità, non si tratta solo di piantare gli alberi, la gente lo vede come un modo per prendere la loro terra» (fonte: The Independent).

 

La colonizzazione si definisce, prima di tutto, come occupazione fisica di uno spazio; alla fine dell’800 l’agronomo francese François Trottier scrive: “È attraverso il rimboschimento che la nostra razza conserverà le sue facoltà europee”. La sua opera dal titolo emblematico Rimboschimento e colonizzazione è il riferimento teorico all’intervento unilaterale sul paesaggio algerino. “Si è parlato a proposito di orientalismo climatico, la superiorità delle razze europee è legata alla loro capacità di prendersi cura del proprio ambiente” (Razmig Keucheyan, La Natura è un campo di battaglia, Ombre Corte 2019, pp 48-49).

 

La disparità ambientale generata dall’imperialismo raggiunge la sua massima tensione con la diffusione del modello economico capitalista che mette in atto un vero e proprio razzismo ecologico divorando risorse e accelerando processi di crisi climatica, a partire dalla rivoluzione industriale per arrivare ai giorni nostri, a danno di società meno organizzate dal punto di vista, prevalentemente eurocentrico, dello sviluppo socioeconomico. Incidendo in modo definitivo sul clima, la forza capitalistica ha determinato il collasso ecologico contemporaneo nel quale devastazione e profitto rappresentano forze proporzionali e connesse.

 

Non tutti gli storici sono concordi sulla lettura dell’impatto capitalistico quale generatore di disuguaglianza climatica e sociale. In un saggio di recente pubblicazione in Italia dal titolo Clima, Storia e Capitale (Nottetempo, 2021) lo storico indiano Dipesh Chakrabarty separa la relazione tra capitale e cambiamento climatico. Per Chakrabarty la crisi climatica è una conseguenza indesiderata dell’evoluzione di specie. Adottare tale visione di specie diluisce, secondo lo storico, le responsabilità del capitalismo in un flusso molto più ampio di tempo storico nel quale le vicende economiche assumono valore relativo di fronte a una prospettiva talmente ampia da azzerare le differenze sociali. D’altronde, sostiene Chakrabarty, nel disastro ambientale non esistono “scialuppe di salvataggio per i ricchi e privilegiati”; il che pare discutibile almeno nel breve periodo.

 

La questione ecologica ha ormai travalicato i confini specifici della scienza e della politica. La sua crisi ha innescato una serie di interrogativi e conflitti in ogni angolo del globo in un’amplificazione di problematiche sociali, economiche e culturali che stanno, in modo ineluttabile, raggiungendo il nostro distratto e sonnecchiante paese.

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Da Pubblicato il: 9 Febbraio 2022Categorie: Blog0 Comments

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