Ora che la politica europea e soprattutto la sua Banca hanno vincolato parte del prestito destinato al rilancio economico degli stati membri a un piano di accelerazione nella lotta al cambiamento climatico i temi ambientali finalmente stanno emergendo dall’anonimato della comunicazione. L’Italia ha inaugurato, con questo governo, il ministero della transizione ecologica e, in paesi come la Germania, i partiti ambientalisti avranno l’occasione di diventare protagonisti della vita politica nazionale.
Tutto questo avviene sul fronte dell’emergenza. Dall’uscita di scena di Trump, stiamo assistendo a una corsa disperata, della politica e dell’industria globale, verso tutte le azioni possibili che possano evitare il collasso del pianeta. Secondo molti commentatori cercare di risolvere i danni imporrà scelte radicali all’industria. Prendiamo l’Eni e il suo concetto di rinnovo delle fonti energetiche. Puntare sul gas, altra fonte fossile, e sulle relative infrastrutture è stata una scelta piuttosto azzardata dato che proprio in questi giorni l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) ha dichiarato che per fermare entro il 2050 l’aumento della temperatura globale è necessario frenare di brutto ogni estrazione fossile: 90 % quella del carbone, 50 % quella di gas, 75 % il petrolio (fonte: quotidiano Domani). Siamo pronti per tale cambiamento radicale? Evidentemente no, dato che il neoministro del suddetto ministero della transizione ecologica non ha ancora affrontato, di fatto, la questione.
Perché ci siamo ridotti all’ultimo? La risposta non è univoca e si compone di tante cause afferenti ai più disparati campi dello sviluppo umano il quale, nella sua distorta concezione di progresso, ha determinato ciò che oggi definiamo Antropocene. Tra tutti i motivi che hanno concorso a questa devastazione ambientale, uno è particolarmente sottile e fastidioso perché non costituito da un abbaglio ideologico ma da una precisa intenzione di distorsione della realtà.
Le attività di lobby dell’industria agroalimentare si sono affiancate a quelle del comparto petrolifero per agire sull’inconsapevolezza ambientale. Gli allevamenti intensivi con i loro indotti causano circa il 14% delle emissioni di gas serra. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Climate Change e condotto da Jennifer Jacquet, docente di studi ambientali alla New York University, per venti anni i colossi industriali della produzione di carne e latticini hanno speso milioni di dollari in azioni che potessero inficiare la presa di coscienza politica nella lotta al cambiamento climatico (fonte Internazionale qui il link). Le azioni sono riconducibili a finanziamenti delle campagne politiche (soprattutto repubblicane) e pressioni indirizzate a bloccare leggi attinenti all’ecologia. Ciò che sorprende è l’assoluta mancanza di responsabilità del comparto visto che “ …tra le 35 maggiori aziende di carne e latticini al mondo, solo quattro si sono impegnate per azzerare le proprie emissioni entro il 2050”.
Un aspetto, se possibile, ancora più subdolo è l’inquinamento accademico. Le aziende di carne e latticini, sempre secondo lo studio sopra citato, finanziano a suon di milioni università e ricercatori al fine di ottenere pubblicazioni edulcorate sui dati scientifici che emergono dall’impatto sull’ambiente delle produzioni industriali.
Le relazioni tra attività industriale di lobby, politica e ambito di ricerca scientifica sono emerse con evidenza nelle misure, prese da un anno a questa parte, per contrastare la pandemia. La geopolitica dei vaccini, soprattutto nello smistamento globale delle dosi, ha fatto emergere quanto gli accordi economici tra le industrie farmaceutiche e i singoli stati abbiano pesato sulla tempestività dell’intervento. L’attuale presidente degli Stati Uniti si è recentemente espresso sulla sospensione dei brevetti al fine di agevolare la distribuzione globale dei vaccini.
Sappiamo già quale sarà il prossimo obiettivo di attività delle lobby industriali: l’agricoltura. L’unione europea stanzia ogni anno svariati milioni di euro per lo sviluppo rurale degli stati membri. L’obiettivo delle multinazionali dell’agroindustria e di alcune nazioni, come Stati Uniti e Canada, è quello di una deregolamentazione degli organismi geneticamente modificati. Da molti anni l’Europa subisce pressioni per aprire il mercato ai prodotti dell’agricoltura biotech e in particolare quelli di nuova generazione cisgenetica che agiscono sul dna delle piante con geni prelevati da organismi vegetali della stessa specie. A detenere il commercio di queste tecnologie sono gli stessi giganti degli ogm classici e del mercato agrochimico: Bayern-Monsanto, Basf e Syngenta. Insomma: un classico. Nuove tecnologie in mano a pochi soggetti per prospettare un monopolio sul mercato dei prodotti chimici fitosanitari e controllo sulla proprietà dei semi.
Anche in questo caso la pressione politica che probabilmente porterà alla liberalizzazione degli ogm di nuova generazione in Europa, nonostante la mobilitazione di molte associazioni ambientaliste sostenitrici di un principio precauzionale, si unisce a una torbida azione accademica nell’intenzione di rivestire la manovra caratterizzata da spirito puramente economico con i crismi della scienza che nobiliterà tale speculazione come salvatrice di qualche bisogno comunitario (lotta alla fame o cambiamento climatico i trend del momento).
Qualche mese fa, per esempio, l’Istituto di biotecnologia fiammingo (Vib) che lavora con Bayern nel campo delle sperimentazioni ogm, ha convinto molti governi a deregolare. Come? Creando una piattaforma Eu-Sage (www.eu-sage.eu) che riceve finanziamenti da fondazioni come quelle di Bill Gates (fondatore di Microsoft) molto attivo in Africa per promuovere il monopolio sugli ogm. Tale piattaforma opera pressioni in favore della causa degli ogm specialmente dopo la sentenza UE del 2018 che equiparava gli ogm di nuova generazione ai vecchi vietandone la diffusione.
Le attività di lobby hanno la responsabilità di aver rimandato il problema del cambiamento climatico fino al tragico momento attuale. La politica giustifica le proprie decisioni, prese per puri interessi di potere, grazie alla condiscendenza del mondo scientifico da sempre a caccia di finanziamenti. La parola di scienza dissipa i dubbi delle persone su decisioni inerenti temi che riguardano la vita di tutti: la salute, l’agricoltura e l’ambiente. Quando la scienza serve interessi privati e non comunitari usa il proprio linguaggio tecnico per escludere la competenza pubblica e la partecipazione lasciandoci soli con un profondo senso di frustrazione e paura per il futuro.