Il rigore enologico ha permesso ai vini dell’Alto Adige di emergere nel panorama produttivo italiano per coerenza qualitativa e affidabilità. Nonostante l’area viticola rappresenti soltanto l’1% circa dell’intero territorio nazionale vitato, la produzione altoatesina ha trovato un posto di primo piano nell’immaginario enologico degli appassionati.

A mio avviso i motivi sono plurimi. Intanto la bellezza unica del luogo di origine: una serie di valli ordinate dove l’elemento antropico ha saputo integrarsi in modo gentile con il paesaggio circostante dominato dalla maestà dolomitica, meraviglioso scenario naturale e polo turistico tra i più desiderati. Poi l’incredibile varietà di vitigni piantati in così breve spazio, tanto che la denominazione di origine Alto Adige, oltre a coprire il 95% della totalità della superficie vitata dell’areale (la più alta percentuale in Italia), passa in rassegna numerose tipologie di uve, molte delle quali vinificate in purezza. Nella maggior parte delle realtà produttive ogni singola tipologia conta su diverse interpretazioni di ambizione crescente tanto da costituire, nella sua totalità, una più che incisiva e sicura opportunità commerciale difficile da non incontrare e di conseguenza, data la qualità che si diceva, scegliere. Proprio l’ambito commerciale esalta il ruolo delle cooperative quali modelli di eccellenza senza paragoni in Italia. Cooperative che hanno saputo intercettare gli snodi storici della viticoltura locale, in particolare il delicato passaggio di fine anni Ottanta, con la crisi del vino al metanolo, ai primi anni Novanta, garantendo dignità economica a un mestiere, quello del viticoltore, sempre più spostato sui ripidi pendii delle valli nella progressiva e incessante industrializzazione della piana di Bolzano.

Eppure la perfezione formale di vini eccellenti, la reiterazione di un modello esecutivo preciso e seriale, fornitore costante di una folta schiera di vini buoni per tutte le esigenze e, infine, la fisionomia rassicurante di vini focalizzati sulla precisione dell’espressione aromatica e sulla freschezza acida, tutti questi fattori messi assieme hanno pietrificato il tratto espressivo fissando un canone di bellezza algido e immutabile che opprime, in fin dei conti, la complessità dei vini prodotti.

L’esempio lampante è uno dei vini icona per gran parte della critica contemporanea; per fortuna non tutta. La cantina cooperativa di Terlano produce da anni la linea Rarity, vini bianchi in grado di dimostrare, secondo le intenzioni dei tecnici, la grande capacità di evolvere nel tempo. Il metodo Stocker, dal nome del suo inventore, di lasciare il vino sulle fecce fini per anni è sicuramente un’ottima strategia ma se radicalizzata attraverso l’assenza di ossigenazione conduce a una fisionomia gustativa rigida e sterile. Che piacere traiamo dal bere un vino invecchiato che ha lo stesso sapore di uno dell’ultima vendemmia? Lascio la risposta a chi incensa queste bottiglie di lodi sperticate; per me sono virtuosismi enologici che hanno interesse accessorio.

Come spesso è accaduto in questi ultimi anni viticoli è dalle nuove generazioni che emergono le critiche costruttive più incisive a un sistema enologico sbilanciato sulla parte finale della filiera produttiva con esecuzioni protocollari senza sbavature ma poco sensibili alle plurime possibilità espressive dei tanti vitigni e altrettante matrici geologiche delle valli alpine. Sono i vini di questi vignaioli, per contrasto, a farci scoprire la complessità taciuta e le possibilità mancate nell’affermazione del modello Alto Adige. Ho avuto l’occasione di organizzare una serata dedicata ad alcuni di questi vini che ho intitolato I vini dell’Alt(r)o Adige con un chiaro e facile gioco di parole.

I vignaioli in degustazione erano Martin Gojer, azienda Pranzegg, Urban Plattner, azienda In Der Eben, Cristoph Unterhofer, azienda Reyter e infine Heinrich Mayr, azienda Nusserhof. Si tratta di quattro realtà che hanno vivacizzato il panorama enologico altoatesino con vini difformi dallo standard enologico, risultato di pratiche devianti dal protocollo diffuso in regione come, ad esempio, rispetto della vita microbiologica attraverso viticoltura biologica o biodinamica, esaltazione delle eterogeneità clonale delle vecchie vigne, ricerca dell’ottimale maturazione delle uve non ossessionati dalla freschezza acida, fermentazioni spontanee e completamento della malolattica in cantina.

Vini liberi in definita che hanno nella diversità espressiva il loro punto di forza.

Naturalmente tali pratiche portano a vini di rottura tanto che ognuno di questi produttori si è fregiato di qualche vino non approvato dalle commissioni di assaggio per l’ammissione alle denominazioni. Destino sempre più comune ai vini di personalità crescente come dimostra la recente uscita dalla denominazione di Alois Lageder, tra le più importanti aziende biodinamiche italiane che sta investendo molte risorse sulla crescita identitaria dei propri vini sempre meno inclini a essere compresi nelle vetuste regole dei disciplinari di origine.

Ho scelto molto volentieri il Gewurztraminer come inizio del confronto tra due opposti enologici. Vitigno banalizzato in Italia, soprattutto nelle sue evidenti, componenti aromatiche se saputo interpretare rivela una finezza gustativa appagante. È il caso del Gewurztraminer 2018 di Urban Plattner, giovane, serafico e rivoluzionario vignaiolo che con la sua azienda, In Der Eben, ha affermato in modo perentorio la qualità dei vini artigianali altoatesini. Il vino proviene da due parcelle distinte: una parte su porfido vicino al centro aziendale a Cornedo sull’Isarco e il resto a San Paolo su suolo alluvionale. Parte del mosto è posto a contatto con le bucce, la fermentazione spontanea. Ne risulta un vino di bella armonia nel quale il sorso rivela succosità e slancio con una chiosa aromatica matura e non smaccata. L’eredità è salina priva del tutto di quelle amarezze così comuni nella maggior parte dei Gewurztraminer nostrali.

 

Martin Gojer è tra i più brillanti interpreti dell’Alto Adige alternativo. Estrema competenza agronomica, rispetto del suolo e libertà enologica. sono i tratti fondamentali del suo lavoro. Il Caroline 2017 è un uvaggio di sauvignon blanc, chardonnay, viognier e manzoni bianco da vigne su suoli di porfido. In barba al monovitigno così in voga da queste parti, Martin cerca di trarre la complessità necessaria attraverso l’unione di tutti gli individui di questa vigna mista; la vinificazione è svolta attraverso la cofermentazione delle diverse tipologie senza aggiunta di lieviti. Affinato in botti da 10 hl il vino non è filtrato né chiarificato. La versione 2017 è decisamente affilata. L’annata calda ha costretto il vignaiolo ad anticipare la vendemmia con conseguente maggiore freschezza che innerva il sorso e dona agilità. Ricordavo versioni più viscose, ma il vino segue l’annata come è sacrosanto che sia e il finale di bella purezza succosa chiosa una pregevole dinamica complessiva.

 

Reyter è una nuova realtà del panorama altoatesino. Da quest’anno Cristoph Unterhofer potrà contare nella sua nuova cantina. Fino alla vendemmia 2020 le sue vinificazioni avvenivano da Urban Plattner. Gli appezzamenti vitati sono tra Caldaro e Termeno su suoli calcarei ricchi di scheletro. La Schiava di Reyter mi ha convinto fin dai primi assaggi per la naturalezza espressiva e la capacità di integrare la rusticità del sorso con leggerezza e densità. La versione 2017 conferma le mie aspettative. Il cenno di volatile suggerisce un sorso aereo ma deciso e saporito che chiude su un succo ricco di aromi fruttati.

 

Si chiude con uno dei pionieri della viticoltura artigianale altoatesina. Heinrich Mayr e la sua famiglia gestiscono da generazioni l’azienda Nusserhof secondo principi di sostenibilità. Poco inclini alle mode hanno sempre sostenuto la centralità delle uve a bacca rossa in Alto Adige rivolgendosi a una tradizione davvero radicata nella cultura locale e purtroppo dimenticata dai più Per questo vitigni come lagrein, teroldego e schiava, quest’ultima esaltata nella sua varietà con antichi biotipi, hanno trovato qui una meritoria custodia. Il Lagrein Riserva 2015 esibisce materia salina e vibrante che nella densità del sorso trova slancio, contrasto ed eleganza che regalano nel loro percorso note profonde di sottobosco, funghi e foglie secche.

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Da Pubblicato il: 1 Aprile 2021Categorie: Blog2 Comments

2 Comments

  1. marco felini 1 Aprile 2021 at 16:47 - Reply

    Eh, ma quando organizza tali serate…lo vorremmo sapere…e poter partecipare!!

    • Fabio Pracchia 2 Aprile 2021 at 12:19 - Reply

      Buongiorno, la degustazione on line era stata organizzata dal gruppo Wine On Line (https://www.wineonline.wine/it/). Io ho scelto il tema e condotto la serata. Se ci sarà altra occasione pubblicherò la data sul sito. Grazie mille.

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