Per fare il vino ci vuole l’acqua. “Frego” il titolo di un vecchio post del mio amico e collega Antonio Boco sul suo blog Tipicamente (link al sito). Tali parole oggi risuonano come una profezia perché la mancanza d’acqua, la sua qualità e gestione potranno mettere in discussione la viticoltura mondiale. Nell’inserto ecologica del quotidiano Repubblica Green & Blue della scorsa settimana, il direttore Fabio Bogo riporta un dato quantomeno tragico: secondo le previsioni del World Resources Institute (WRI), nel 2040 l’Italia vivrà una situazione di stress idrico senza precedenti. In circa venti anni, dunque, il nostro consumo e, più in generale, il rapporto con il liquido vitale (non il vino cari lettori) sarà totalmente diverso da quello che abbiamo oggi. D’altra parte sono anni di traguardi piuttosto allarmanti come il 2030, millesimo limite dei 17 ambiziosi obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’agenda Onu, oppure il 2050, anno che, secondo le intenzioni, ancora più ambiziose, dell’Unione europea dovrebbe segnare la fine delle emissioni di anidride carbonica del comparto industriale continentale; insomma e come se i politici avessero messo un enorme bollino sul mondo con su apposte parecchie date di scadenza. Ma l’acqua sembra purtroppo anticipare un futuro distopico.

L’editoriale dell’inserto di Repubblica continua, purtroppo per noi, sbagliando obiettivo. Bogo, riferendosi a uno studio della Barilla Foundation, individua nelle pratiche private di gestione dell’acqua i comportamenti da correggere per migliorare le tetre prospettive individuate dal WRI. Sono dati dello spreco che vogliono inchiodare ognuno di noi alla colpa del proprio consumo. Ma le cose non stanno proprio così. Spostare l’indice sulle persone è una pratica scorretta e fuorviante. Invece di insegnare come pulire l’insalata, Barilla, se proprio vuole, dovrebbe aiutare i cittadini nell’individuare e frenare le manipolazioni politiche e finanziare che si appropriano di un bene essenziale, comune e importante come l’acqua; pratiche sporche che hanno danneggiato la disponibilità globale d’acqua a favore di interessi speculatori.

Si tratta del mito del consumatore verde, felice definizione del giornalista olandese Jaap Tielbeke: possiamo sentirci in pace con noi stessi nell’operare scelte di consumo etiche e responsabili ma fino a che la politica non si attiverà per cambiare i paradigmi della produzione industriale di beni e servizi, il nostro contributo di consumatori è puramente autoreferenziale.

Vi rimando a questo tema attraverso il link che riporta il dibattito  tra il giornalista olandese, la ricercatrice Fiorella Belpoggi, di cui ho già parlato qui, l’onorevole Rosella Muroni e il giornalista inglese Leo Hickman nell’ambito di Internazionale a Ferrara. È quindi auspicabile pretendere di essere trattati da cittadini e non da consumatori dalle multinazionali del cibo che stanno frettolosamente ricorrendo a smaccate operazioni di greenwashing per rifarsi il trucco di sgargiante verde smeraldo.

Il cambiamento climatico, per quanto importante, non rappresenta l’unico pericolo per il sicuro accesso all’acqua. Anni di politiche sbagliate hanno permesso di porre ostacoli al naturale corso dei fiumi determinando una serie di conseguenze negative: sempre Repubblica riporta i risultati di un’indagine su scala mondiale che presenta dati piuttosto allarmanti per il nostro continente. L’Europa conta un milione di dighe, strutture che non permettono il libero corso dei fiumi dalla sorgente alla foce, veri e propri ostacoli costruiti per ottenere bacini idrici a scopi industriali, che hanno “causato la perdita dell’80% della biodiversità fluviale e del 50% dell’abbondanza di pesci che risalgono le correnti”. A tale danno si deve aggiungere l’innalzamento del cuneo salino, cioè delle acque salate del mare che risalgono il letto dei corsi fluviali a secco e causa di salinizzazione delle acque non più idonee agli usi agricoli. La nostra penisola porta ancora profonde ferite causate dalla costruzione delle linee ferroviarie ad Alta Velocità che hanno disseccato l’enorme ricchezza delle falde freatiche degli Appennini. Gli ostacoli ai corsi d’acqua, l’inquinamento e progettazioni industriali incuranti dell’ambiente sono frutto di precise scelte politiche e non di un generico e approssimativo malcostume civico.

Ma, se possibile, esiste una prospettiva ancora più inquietante nella quale il ruolo della politica viene assunto dalla finanza. Un’indagine molto approfondita dei giornalisti francesi Lucile Berland e Jérôme Fritel tradotta su Internazionale n.1403 prospetta un futuro davvero grigio per l’acqua e i nostri diritti. Il Water Act è una legge australiana del 2007 che stabilisce annualmente il prezzo dell’acqua per l’intero paese. Metà dell’acqua è destinata ai consumatori (agricoltori, industrie famiglie) il prezzo della parte rimanente è deciso dal mercato.

L’acqua è quotata in borsa e un investitore di qualsiasi paese del mondo può determinare una speculazione sul prezzo specialmente quando gli agricoltori sono in difficoltà per la siccità che sempre più spesso colpisce il paese. In tale scenario le dighe diventano dei veri e propri forzieri dato che in un paese assetato, l’acqua conservata rappresenta un valore dal prezzo in costante ascesa.

Se l’acqua non scorre, l’ambiente si ammala: per questo le associazioni ambientaliste hanno chiesto di raddoppiare la cifra dell’acqua restituita alla natura che ammonta oggi a circa 2.750 miliardi di litri. Una quantità preziosa che rappresenta la vita o la morte per tantissimi agricoltori che di fatto sono in lotta con gli ecologisti per la dispersione dell’oro blu. Questa guerra si combatte nelle pianure ormai aride del continente australiano con i teorici del liberismo economico e i praticanti della quotazione dell’acqua allegri e spensierati siedono in qualche grattacielo di una metropoli qualsiasi. È questo il laboratorio dove si sperimenta il prossimo futuro dell’Europa che sta subendo come tutto il mondo i danni del cambiamento climatico?

«Il pianeta sta esaurendo l’acqua pulita accessibile perché gli uomini l’hanno inquinata, estratta in modo eccessivo, dirottata, arginata e gestita male. La mercificazione dell’acqua non è la soluzione» tuona la celebre ambientalista indiana Vandana Shiva. E mentre le sue parole scivolano sulle logiche politiche ed economiche del globo, il Giappone intende sversare nell’Oceano Pacifico, 1,25 milioni di tonnellate di acqua radioattiva, conseguenza del disastro nucleare di Fukushima dieci anni fa, con secolari danni allo stato di salute del mare, dei pesci e, dato di secondaria importanza visti i precedenti, degli esseri umani.

 

I dati e le informazioni di questo post sono stati presi da Green & Blue del 1 Aprile, Internazionale e il sito cinese scritto in inglese globaltimes.cn

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Da Pubblicato il: 13 Aprile 2021Categorie: Blog0 Comments

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